Il deficit cognitivo della schizofrenia è legato alla disbindina

 

 

GUIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 27 febbraio 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La scorsa settimana abbiamo recensito il più grande studio recente finalizzato all’identificazione di rapporti fra geni associati alla schizofrenia e volume di aree cerebrali sottocorticali[1], questa settimana torniamo ad affrontare l’argomento schizofrenia in un’ottica metodologica del tutto diversa, quella della neurobiologia molecolare.

Nonostante il grande impegno della ricerca, i meccanismi fisiopatologici all’origine della sintomatologia della schizofrenia non sono noti. La definizione di tali processi costituirà sicuramente un progresso per le neuroscienze in generale, oltre che per la psicopatologia e la psichiatria clinica, che potrebbe disporre di basi razionali solide per interventi terapeutici più mirati.

La schizofrenia, come è noto agli psichiatri esperti, può distinguersi da vari altri disturbi deliranti anche perché si accompagna a declino cognitivo: un aspetto di notevole rilievo clinico e di grande impatto esistenziale, in quanto responsabile in buona parte dell’invalidità psicotica che segna la vita di queste persone, nonostante un decorso migliorato dalle più recenti terapie.

Sulla base dei risultati della ricerca degli ultimi vent’anni, le ragioni generiche del difetto cognitivo sono facilmente intuibili, ma le specifiche ragioni della compromissione della sfera intellettiva non sono note e, pertanto, la sperimentazione che getta luce sui possibili meccanismi responsabili di queste alterazioni è sempre di estremo interesse.

Chen e colleghi di Singapore e Filadelfia hanno preso le mosse da un dato recente: la disbindina o DTNBP1 (Dystobrevin-binding protein-1) è uno di alcuni RDoC (Research Domain Construct) associato alla cognizione ed è risultata ridotta nei pazienti schizofrenici. Lo studio ha prodotto risultati di grande rilievo (Chen Y., et al. Neuronal Activity-Induced Sterol Regulatory Element Binding Protein-1 (SREBP1) is Disrupted in Dysbindin-Null Mice-Potential Link to Cognitive Impairment in Schizophrenia. Molecular Neurobiology – Epub ahead of print, Feb 12, 2016).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Psychiatry, Center for Neurobiology and Behavior, Perelman School of Medicine at the University of Pennsylvania, Philadephia, PA (USA); Department of Anatomy and Neurobiology Research Programme, National University of Singapore (Singapore); Department of Systems Pharmacology and Translational Therapeutics, Perelman School of Medicine at the University of Pennsylvania, Philadelphia, PA (USA).

Se rileggiamo la storia del riconoscimento clinico della psicosi schizofrenica e della definizione del concetto di schizofrenia, ci rendiamo subito conto che l’aspetto relativo al difetto cognitivo era, fin dagli albori, ben presente. Si può anzi dire che era eccessivamente enfatizzato. In Francia, Morel descriveva alcuni psicotici come “colpiti da «stupidità» fin da giovani” e li etichettava quali “dementi precoci”; in Germania, Hecker definì la malattia di queste persone ebefrenia, con riferimento ad uno stato di decadimento di risorse cognitive verificatosi in età ancora giovanile, mentre Kahlbaum, osservando casi con prevalenza di sintomi psicomotori, descrisse forme di catatonia. Il prezioso lavoro nosografico condotto da Kraepelin dal 1890 al 1907 per il suo Trattato delle Malattie Mentali, riunì tutti questi casi nella diagnosi di Dementia praecox.

Fino a quando Bleuler nel 1911 introdusse la nozione di perdita dell’unità della vita psichica e propose la denominazione di schizofrenia per indicare questa scissione, la compromissione progressiva delle risorse intellettive era considerata la manifestazione sintomatologica di maggior rilievo.

Una preoccupazione ben evidente nei clinici europei degli ultimi decenni del Novecento era rappresentata dalla distinzione fra quadri clinici con sintomi psichiatrici dovuti a definite alterazioni cerebrali, e perciò da considerarsi neurologici come le oligofrenie dell’età evolutiva e le demenze dell’anziano, e le sindromi specifiche e proprie della clinica psichiatrica, quali nevrosi, psicosi e psicopatie, per le quali si supponeva un’alterazione psichica solo “funzionale”, priva di una base anatomopatologica cerebrale. L’enfasi posta su questa distinzione, che fra l’altro rifletteva la separazione di competenze fra specialisti di neurologia e psichiatria, originava dagli aspetti prototipici e caratteristici della casistica clinica più frequente. La separazione era resa ancora più netta dalla tendenza a considerare la mancanza di conoscenza di dati di patologia molecolare, cellulare e dei sistemi neuronici per i disturbi d’ansia (nevrosi) e per le psicosi (schizofrenica, bipolare, ecc.), equivalente alla certezza dell’integrità di tali livelli strutturali. Infine, tale tipo di distinzione trovava un certa corrispondenza nella dicotomia originata dai paradigmi millenari della cultura popolare, che caratterizzava il matto come un esaltato o un originale dall’intelligenza talora delirante e talaltra creativa, mentre considerava il deficiente e il demente come carenti, deboli, ammalati[2].

La cultura che voleva caratterizzare anche la distinzione fra la neurologia, come la branca medica che si occupa di ictus, epilessia, tumori, traumi cerebrali, e così via, e la psichiatria, che si occupa di ansia, fobie, attacchi di panico, depressione e disturbi con deliri e allucinazioni, sollecitava l’attenzione sui sintomi “propriamente psichiatrici” della schizofrenia, perché non si cadesse nell’errore di considerarla una “demenza precoce” come era accaduto nell’Ottocento. Probabilmente, questa enfasi eccessiva ha portato a trascurare per molto tempo la considerazione e lo studio sistematico dell’indebolimento cognitivo.

Il tentativo di comprendere le basi neurochimiche della schizofrenia[3] ha fornito una notevole messe di dati e nozioni difficili da sintetizzare, dall’ipofunzione dei recettori NMDA, alle alterazioni di molecole di segnalazione intracellulare, di proteine neuroniche strutturali, dei sistemi colinergico, GABAergico, glutammatergico, dopaminergico e della glia. Ma un ruolo tutto speciale lo ha avuto il brain imaging che, mediante PET, MRI, fMRI e MRS, ha fornito evidenze inequivocabili che la schizofrenia è una malattia del cervello[4].

Nella speranza di cominciare a conoscere le basi molecolari della patogenesi delle principali manifestazioni del disturbo, Chen e colleghi hanno studiato topi knockout per la disbindina mediante microarray analyses dei neuroni dell’ippocampo, la struttura chiave per l’apprendimento e il supporto mnemonico alla cognizione. L’analisi ha rivelato che i geni implicati nella via lipogenica sono soppressi.

Proseguendo l’osservazione, i ricercatori hanno scoperto che un regolatore trascrizionale di fondamentale importanza per la sintesi dei lipidi, SREBP1 (sterol regulatory element binding protein-1) è indotto dall’attività neuronale ed è richiesto per l’induzione di ARC (activity-regulated cytoskeleton-associated protein)[5], necessaria per la plasticità sinaptica e la memoria.

Nei topi knockout per la disbindina-1 la SREBP1 nucleare è risultata drammaticamente ridotta; alla verifica del tessuto cerebrale prelevato post-mortem da pazienti affetti da schizofrenia, è risultata una simile rilevante riduzione della SREBP1. Si è allora studiata, sempre nei roditori privati dei geni per la disbindina-1, la maturazione dipendente dall’attività di SREBP1, e la si è trovata ridotta rispetto alla condizione fisiologica. Allo stesso modo, si è rilevata in queste condizioni una riduzione dell’espressione di ARC.

Per verificare la presenza di un rapporto con la psicosi, si è somministrata la clozapina, prototipo degli antipsicotici atipici. Il farmaco ha determinato il ristabilirsi delle condizioni fisiologiche precedenti, sia per la maturazione dipendente dall’attività di SREBP1, sia per l’espressione di ARC.

Presi nell’insieme, questi risultati indicano un importante ruolo della disbindina-1 nell’induzione di SREBP1 ed ARC da parte dell’attività neuronica; un ruolo rilevante quale base molecolare del deficit cognitivo nella schizofrenia.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-27 febbraio 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Note e Notizie 20-02-16 Influenze genetiche su schizofrenia e volume sottocorticale.

[2] I cenni storici e questa breve discussione sono stati basati su testi e lezioni del presidente Perrella, in parte sintetizzati dal professor Giovanni Rossi.

[3] Si ricorda che, dopo l’epoca degli studi pionieristici della “biochimica della schizofrenia” che non approdarono a nulla per difetto di mezzi e di conoscenze, vi è stato un lungo periodo in cui si è abbandonata l’idea di poter definire alterazioni molecolari in grado di spiegare i sintomi psicopatologici. In quel periodo vi è stato un dominio quasi assoluto della ricerca progettata per conto di case farmaceutiche e, più in generale, finalizzata alla terapia. Questo periodo ha pressoché coinciso con i 40 di dominio dell’ipotesi dopaminergica della patogenesi della psicosi.

[4] Dager S. R. , et al. Research application of magnetic resonance spectroscopy to investigate psychiatric disorders. Topics in Magnetic Resonance Imaging 19, 81-96, 2008; Puri B. K., et al. Progressive structural brain changes in schizophrenia. Expert Review of Neurotherapeutics 10, 33-42.

[5] È una immediate early gene protein.